04 giugno 2025

CUORE di Edmondo de Amicis [NOVEMBRE]

Indice:

CUORE
Edmondo de Amicis

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NOVEMBRE

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Lo spazzacamino.

1, martedì.

Ieri sera andai alla Sezione femminile, accanto alla nostra, per dare il racconto del ragazzo padovano alla maestra di Silvia, che lo voleva leggere. Settecento ragazze ci sono! Quando arrivai cominciavano a uscire, tutte allegre per le vacanze di Ognissanti e dei morti; ed ecco una bella cosa che vidi. Di fronte alla porta della scuola, dall’altra parte della via, stava, con un braccio appoggiato al muro e con la fronte contro il braccio, uno spazzacamino, molto piccolo, tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio, e piangeva dirottamente, singhiozzando. Due o tre ragazze della seconda gli s’avvicinarono e gli dissero: — Che hai che piangi a quella maniera? — Ma egli non rispondeva, e continuava a piangere. — Ma di’, che cosa hai, perché piangi? — gli ripeterono le ragazze. E allora egli levò il viso dal braccio, — un viso da bambino, — e disse piangendo che era stato in varie case a spazzare, dove s’era guadagnato trenta soldi, e li aveva persi, gli eran scappati per la sdrucitura d’una tasca, — e faceva veder la sdrucitura, — e non osava più tornare a casa senza i soldi. — Il padrone mi bastona, — disse singhiozzando, e riabbandonò il capo sul braccio, come un disperato. Le bambine stettero a guardarlo, tutte serie. Intanto si erano avvicinate altre ragazze, grandi e piccole, povere e signorine, con le loro cartelle sotto il braccio, e una grande, che aveva una penna azzurra sul cappello, cavò di tasca due soldi, e disse: — Io non ho che due soldi: facciamo la colletta. — Anch’io ho due soldi, — disse un’altra vestita di rosso; — ne troveremo ben trenta fra tutte. — E allora cominciarono a chiamarsi: — Amalia! — Luigia! — Annina! — Un soldo! — Chi ha dei soldi? — Qua i soldi! — Parecchie avevan dieci soldi per comprarsi fiori o quaderni, e li portarono; alcune più piccole diedero dei centesimi; quella dalla penna azzurra raccoglieva tutto, e contava a voce alta: — Otto, dieci, quindici! — Ma ci voleva altro. Allora comparve una più grande di tutte, che pareva quasi una maestrina, e diede mezza lira, e tutte a farle festa. Mancavano ancora cinque soldi. — Ora vengono quelle della quarta, che ne hanno, — disse una. Quelle della quarta vennero, e i soldi fioccarono. Tutte s’affollavano. Ed era bello vedere quel povero spazzacamino in mezzo a tutte quelle vestine di tanti colori, a tutto quel rigirìo di penne, di nastrini, di riccioli. I trenta soldi c’erano già, e ne venivano ancora, e le più piccine, che non avevan denaro, si facevano largo tra le grandi porgendo i loro mazzetti di fiori, tanto per dar qualche cosa. Tutt’a un tratto arrivò la portinaia gridando: — La signora Direttrice! — Le ragazze scapparono da tutte le parti come uno stormo di passeri. E allora si vide il piccolo spazzacamino, solo, in mezzo alla via, che si asciugava gli occhi, tutto contento, con le mani piene di denari, e aveva nell’abbottonatura della giacchetta, nelle tasche, nel cappello tanti mazzetti di fiori, e c’erano anche dei fiori per terra, ai suoi piedi.

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Il giorno dei morti.

2, mercoledì.

Questo giorno è consacrato alla commemorazione dei morti. Sai, Enrico, a quali morti dovreste tutti dedicare un pensiero in questo giorno, voi altri ragazzi? A quelli che morirono per voi, per i ragazzi, per i bambini. Quanti ne morirono, e quanti ne muoiono di continuo! Pensasti mai a quanti padri si logorarono la vita al lavoro, a quante madri discesero nella fossa innanzi tempo, consumate dalle privazioni a cui si condannarono per sostentare i loro figliuoli? Sai quanti uomini si piantarono un coltello nel cuore per la disperazione di vedere i propri ragazzi nella miseria, e quante donne s’annegarono o moriron di dolore o impazzirono per aver perduto un bambino? Pensa a tutti quei morti, in questo giorno, Enrico. Pensa alle tante maestre che son morte giovani, intisichite dalle fatiche della scuola, per amore dei bambini, da cui non ebbero cuore di separarsi; pensa ai medici che morirono di malattie attaccaticce, sfidate coraggiosamente per curar dei fanciulli; pensa a tutti coloro che nei naufragi, negli incendi, nelle carestie, in un momento di supremo pericolo, cedettero all’infanzia l’ultimo tozzo di pane, l’ultima tavola di salvamento, l’ultima fune per scampare alle fiamme, e spirarono contenti del loro sacrificio, che serbava in vita un piccolo innocente. Sono innumerevoli, Enrico, questi morti; ogni cimitero ne racchiude centinaia di queste sante creature, che se potessero levarsi un momento dalla fossa, griderebbero il nome d’un fanciullo, al quale sacrificarono i piaceri della gioventù, la pace della vecchiaia, gli affetti, l’intelligenza, la vita; spose di vent’anni, uomini nel fiore delle forze, vecchie ottuagenarie, giovinetti, — martiri eroici e oscuri dell’infanzia, — così grandi e così gentili, che non fa tanti fiori la terra, quanti ne dovremmo dare ai loro sepolcri. Tanto siete amati, o fanciulli! Pensa oggi a quei morti con gratitudine, e sarai più buono e più affettuoso con tutti quelli che ti voglion bene e che fatican per te, caro figliuol mio fortunato, che nel giorno dei morti non hai ancora da piangere nessuno!

TUA MADRE

23 maggio 2025

KRAV MAGA Difesa personale e sicurezza [CAPITOLO 2]

Indice:

KRAV MAGA
Difesa personale e sicurezza
Manuel Spadaccini

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CAPITOLO 2

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1. I tre errori più stupidi da evitare durante un’aggressione. Se volete difendervi o affrontare qualcuno che vi sta minacciando o infastidendo per strada, ci sono tre cose così stupide, ma davvero così stupide, che dovete assolutamente conoscere per non farle. Potete difendervi come volete, arrangiatevi come preferite, ma non commettete questi tre errori che ora vi spiegherò. Comportamento stupido numero uno: tenere le mani in tasca. Sappiamo bene che, quando siamo in strada, una delle cose più utili è mantenere la distanza da chi ci vuole fare del male o ci sta urlando contro. Se stiamo troppo vicini, come ho già detto molte volte, diventa difficile schivare un colpo in tempo, e ci mettiamo un po’ nelle mani del nostro aggressore. Se, per esempio, estrae un’arma, non la vediamo. Sulla distanza, quindi, siamo tutti d’accordo: bisogna stare un po’ lontani. Andare faccia a faccia è già di per sé una pessima idea, ma una delle cose più stupide che si possono fare, e che si vede comunque abbastanza spesso, è andare faccia a faccia con le mani in tasca. Le mani in tasca vengono usate come per dire: «Guarda, non mi fai paura, sono superiore a te, prova a colpirmi, vediamo». È un tentativo di creare un effetto deterrente, di spaventare o almeno preoccupare chi abbiamo davanti, mostrando una grande fiducia in noi stessi. Ma la realtà è che si tratta di una cosa estremamente stupida. Se la persona che abbiamo davanti non si preoccupa del fatto che noi non abbiamo paura, ma sta solo aspettando il momento giusto per colpirci, gli serviamo il nostro viso su un piatto d’argento. Perché, se già la distanza ravvicinata non ci aiuta, figuriamoci avere le mani in tasca, incastrate, che ci metteranno una vita a proteggerci. È proprio un’idea geniale, no? Le mani in tasca sono davvero una stupidata: quando vedete qualcuno che le mette, sappiate che sta praticamente regalando un vantaggio a chi ha davanti. Come dico sempre, cerchiamo invece di tenere le mani alte, mantenendo la distanza, se possibile, e magari gesticolando, dicendo: «Sì, dimmi, che vuoi, cosa c’è?». Va bene, ma intanto sono lì, pronte a proteggermi, a colpire o a fare qualsiasi cosa. Le mani in tasca, invece, è come dire: «Vabbè, ancora un po’ e mi metto le manette, prendimi e sfondami come vuoi». Comportamento stupido numero due: rimanere seduti quando litigate con qualcuno. Un comportamento simile si verifica, ad esempio, quando ci troviamo seduti su una panchina, in un locale o altrove, e una persona si avvicina con fare minaccioso. Magari abbiamo già discusso con lei prima, o comunque da lontano capiamo che non viene a salutarci o a offrirci da bere, ma a crearci problemi. Ecco, rimanere seduti, pensando anche in questo caso di mostrare grande sicurezza in noi stessi, può diventare davvero pericoloso. Se dovessimo difenderci, saremmo praticamente impossibilitati a schivare i colpi o a colpire in modo utile per allontanare l’aggressore o fermarlo. Siamo incastrati in una posizione non utile alla difesa. Rimanere seduti quando una persona sta litigando con noi è un’altra stupidata enorme, perché non ci aiuterà per niente. Anche qui, se puntiamo tutto sull’immagine di estrema sicurezza, pensando: «Io, seduto, sembro estremamente sicuro», e questa strategia non funziona, siamo in balia degli eventi. Ma non solo: anche alzarsi, ma rimanere con la sedia dietro di noi, non è un colpo di genio. Il mio consiglio, invece, è questo: se ho dei problemi, mi alzo subito e mi sposto in modo da avere un movimento più agile, in avanti, indietro o lateralmente, che sia utile per la mia difesa. Ad esempio, se litigo su un aereo o su un treno e mi alzo, ma rimango incastrato tra i sedili, sarò comunque imprigionato. Quindi, quando siamo seduti, ci alziamo e ci spostiamo, magari in un corridoio tra i sedili, dove possiamo indietreggiare e guadagnare distanza. Anche qui, puntare troppo sull’apparenza e sulla sicurezza di noi stessi può essere un autogol, perché la persona davanti potrebbe non curarsi del fatto che sembriamo sicuri. Potrebbe essere così arrabbiata e incazzata con noi che vuole colpirci comunque, indipendentemente da quanto sembriamo sicuri. Capite, quindi, che la nostra carta di essere sicuri e seduti va a farsi benedire e non serve a nulla. Comportamento stupido numero tre: bere da una lattina, un bicchiere o una bottiglia davanti a chi vi minaccia. Un altro atteggiamento dettato dal voler sembrare troppo sicuri e dal sottovalutare chi abbiamo davanti è pensare: «Mi comporto così, sembro sicuro, e lui si fermerà». Uno di questi atteggiamenti, molto pericoloso e quindi molto stupido, è bere da una lattina, un bicchiere o una bottiglia davanti alla persona che ci sta creando problemi e con cui stiamo litigando. Nel momento in cui porto l’oggetto al viso per bere, divento estremamente vulnerabile. Basta che lui colpisca la bottiglia o mi colpisca direttamente per amplificare il danno, perché l’oggetto contro il mio viso causerà un grosso problema. È importantissimo, quindi, avere le mani libere. Non consiglio di utilizzare un oggetto, a meno che non sia strettamente necessario, perché non possiamo colpire qualcuno con una bottiglia in testa, altrimenti saremmo noi i criminali. Se devo difendermi, libero le mani e le utilizzo al meglio, ma sicuramente non vado faccia a faccia con lui, dicendo: «Dimmi, cos’hai, che problemi hai?», con la bottiglia vicino al viso. Perché, se lui coglie il momento giusto, un colpo alla bottiglia e mi sfascia la faccia, un disastro. Quindi, attenzione: se voglio bere qualcosa mentre sto litigando, metto via il drink, preparo le mani per proteggermi e così via. Chiaro? Come vedete, questi tre atteggiamenti sono davvero comportamenti stupidi, ma derivano tutti dal sottovalutare chi abbiamo davanti e dal pensare che la nostra strategia funzioni per forza, che la persona davanti sia un emerito coglione e che qualsiasi cosa facciamo per intimorirlo o sembrare sicuri lo fermerà. Ma non è così. Anzi, sono tutti comportamenti che dicono: «Fai di me ciò che vuoi, perché io sarò impegnato, seduto, con le mani in tasca o con un oggetto davanti al viso, a farmi i fatti miei, sperando che tu ti fermi». Mi raccomando, quindi, è importantissimo pensare non a una strategia che potrebbe funzionare o no, ma che potrebbe addirittura diventare un grande autogol e peggiorare la nostra situazione. Al contrario, utilizziamo sempre una strategia con la testa, con il cervello. Mantengo la distanza, non devo avere paura di chi ho davanti, ma devo temere una sua possibile azione. Questo mi terrà alta la guardia a livello di attenzione e sicuramente mi eviterà di commettere questi errori stupidi, che derivano da un eccesso di sicurezza che magari non mi merito neanche, perché sono davvero in balia sua.

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2. Furti in metropolitana: l’ultimo trucco dei ladri. C’è un altro modo di derubare le povere vittime in metropolitana che sta prendendo piede, e non si sviluppa più con la destrezza, cioè con quel modo insidioso di infilare la mano nella borsetta, con discrezione, che, tra parentesi, viene chiamato dalla legge «furto con destrezza», che è un’aggravante. Questo modus operandi si sviluppa sul timing, un timing che consente ai ladri di rubare non solo dalle tasche, ma anche oggetti messi al collo, come catenine d’oro. Vi spiegherò come non cadere in trappola, perché si tratta di una trappola vera e propria. Sono solo alcuni sedili della metropolitana interessati da questo pericolo, e non voglio che capiti proprio a voi. Cerchiamo di rendere la vita difficile a questi bastardi! Come funziona questa strategia? I criminali individuano le persone sedute vicino alle porte, quindi quei posti a sedere che sono proprio a fianco della porta che si usa per entrare e uscire dalla metropolitana. In questo caso, osservano quale vittima ha l’oggetto che può essere facilmente prelevabile. Si avvicinano piano piano tra la folla, nella metropolitana, e aspettano. Sono persone che vogliono passare inosservate, quindi non alzeranno la voce, non faranno nulla per attirare l’attenzione. Si avvicinano a voi e alla porta che vi è a fianco. Si guarderanno intorno, annoiati, quasi distratti, quindi non daranno alcun tipo di interesse alla vostra attenzione. In realtà stanno calcolando esattamente tutti i tempi. Non mostreranno di voler scendere alla fermata che è appena arrivata. Le porte si sono aperte e loro sono disinteressati, sembra che debbano stare su ancora per qualche fermata. Nella realtà, stanno contando i secondi in cui la porta attiverà la chiusura. Nelle metropolitane, a volte, la chiusura è accompagnata da un cicalino, quindi questo li aiuta. In quel momento, contano i secondi. Quando le porte si stanno per chiudere, si spostano velocemente, afferrano quello che avevano individuato, che spesso è un telefonino in mano, una catenina esposta al collo senza protezione di sciarpe o giacconi, o una borsetta tenuta con una mano un po’ morbida. Prendono e escono immediatamente dalle porte, infilandosi negli ultimi venti centimetri prima che queste si chiudano. In questo caso, la vittima, che al momento che si è alzata in piedi, capisce cosa è successo, trova le porte già belle che chiuse, il vagone si è già messo in movimento, e il rapinatore sarà già al riparo, tranquillo, sulla banchina. Che cosa possiamo fare per difenderci? Se ci sono diversi posti liberi, evitiamo i posti vicino alle porte. Mettiamoci nei punti in cui è più difficile scappare. Cerchiamo di rendere la vita più difficile ai criminali. Se proprio non possiamo, perché i posti sono pieni e c’è libero solo qualche sedile vicino alle porte, sappiamo che quella è una zona di maggior pericolo. Se abbiamo una collanina o qualcosa che può essere in vista, quando arriva la fermata, ci mettiamo la mano al collo per proteggere quello che potrebbe essere il furto. Non tiro fuori il telefono proprio vicino alle porte. Aspetterò di guardare il telefono in un altro momento o cercherò di girarmi, dando le spalle alle porte, per guardare il telefono in maniera che sia difficile da afferrarmelo. Se sapete che quella è una zona più a rischio, possiamo attivare delle dinamiche per proteggerci. Ci sono anche casi in cui il criminale non è neanche a bordo del vagone. Si ferma il vagone, i criminali, a volte delle gang di ragazzi giovani, quando si aprono le porte, cacciano dentro la testa, vedono chi c’è vicino alla porta, già qualcosa da prendere, pigliano, scappano e se ne vanno, sempre calcolando il timing di chiusura della porta. Anche se non vedete nessuno davanti a voi, non è detto che quel posto a sedere non sia pericoloso. State molto attenti al momento che si aprono le porte, perché qualcuno da dietro potrebbe arrivare e recarvi un bel danno. Sedili centrali per essere più protetti oppure, se siamo costretti a sederci in quelli vicino alle porte, massima attenzione!

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3. Ladri in casa: come difendersi legalmente e cosa evitare. Ho chiesto: «Cosa fareste se foste in casa e sentiste ladri armeggiare alla porta?» Apriti cielo! Troppe persone dicono: «La mia priorità è la famiglia, appena posso lo ammazzo, gli sparo!» o: «Meglio un brutto processo che un bel funerale». Mi sono fermato e ho risposto: «Sei sicuro che tutelare la tua famiglia sia sparare e finire 20 anni in galera? Vuoi vedere i tuoi figli crescere da dietro le sbarre? Lasciarli senza un padre, senza soldi, perché sei dentro?» Non voglio incolpare chi si sente violato in casa e non sa cosa fare, perché lo Stato vi chiede di difendervi senza insegnarvelo prima. A scuola non ci spiegano come fare. È come fare un esame senza studiare: sei bocciato perché non sai rispondere. Vi spiegherò cosa prevede la legge, cosa potete fare e come proteggere davvero la vostra famiglia senza colpi di testa o: «Bah, penso si debba fare così». Molti aspettano solo quello per poter dare fuoco alle polveri, cioè sparare: «C’ho la mia Smith & Wesson!» Come se non vedessero l’ora di sfogarsi. Altri userebbero una mazza da baseball. Altri non sanno cosa fare: «Posso usare un coltello?» o: «Non posso chiuderli in bagno, sennò divento l’aggressore». Alcuni dicono: «Devo offrirgli il caffè, la legge italiana non mi lascia fare nulla, sono sempre in torto». Questo viene dalla non conoscenza della legge. Chiarisco. Si possono fare tante cose, ma bisogna sapere come, per non finire nei guai. Immaginate: siete in casa di notte, sentite armeggiare alla porta. Che fate? Consiglio chiave: ricordate il castello. Se siete chiusi dentro, non aprite per scacciare i ladri, togliete una barriera. Nei castelli si chiudevano dentro, non abbassavano il ponte levatoio. Se aprite e uscite per sistemarli, rischiate voi e i vostri cari. Se vi beccano in svantaggio, con ladri che vi puntano un coltello alla gola e dicono alla moglie: «Apri, sennò lo sgozziamo!», lei deve aprire. Un colpo di testa mette in pericolo la famiglia. Autogol. Non aprite! Non inseguite i ladri, proteggetevi stando chiusi. «E poi?» Fate capire che hanno perso la sorpresa: accendete le luci, urlate: «Vi abbiamo sentito, via, abbiamo chiamato la polizia!» Chiamatela subito. Anche se soli, urlate al plurale: «Vi abbiamo sentito!» Così pensano ci sia più gente. Insisteranno? Difficile, la sorpresa è finita. Andranno altrove. Facendo rumore, mostrando che siete pronti, li scoraggiate. Ma state al sicuro. Radunate la famiglia in una stanza sicura. Accendete luci, fate rumore, urlate, mandateli via. Non inseguite i ladri. Se vogliono scappare, lasciateli andare! Se li trovate in casa, non bloccate chi fugge per fargli del male. Volete che resti in casa vostra? No, allora perché trattenerlo? Fare i giustizieri è istintivo, ma sbagliato. Lo Stato non vi autorizza a inseguire per punire. Il ladro scappa? Lasciatelo! Non siete polizia, non catturatelo. Rischiate solo per punirlo? Il cittadino non può fare il giudice o il boia. Non potete dire: «Ti punisco perché hai provato a rubare». Lo Stato vi permette di agire solo per difendere la vostra incolumità, non per punire. Molti finiscono nei guai: «Scappava, gli ho sparato alla schiena!» o: «L’ho inseguito, accoltellato con le forbici!» Se scappa, non c’è legittima difesa, non siete in pericolo, siete voi a cercarlo. Questo fa condannare cittadini che, per paura, adrenalina o voglia di giustizia, fanno cazzate e pagano in tribunale. La legittima difesa è chiara: potete difendervi se c’è proporzionalità tra minaccia e reazione. Se vi minacciano di morte, potete reagire forte; se vi spingono, non potete ammazzarli con una spranga. Se il ladro scappa, non è un pericolo, non potete toccarlo. Siete cittadini, non polizia. Molti dicono: «Ma restano impuniti!» Non possiamo decidere noi la punizione. «Rubano la mia macchina? Gli do tre schiaffoni e quattro calci in culo!» Non funziona. Se in cinque fermate un ladro, chi decide la punizione? Non ha senso. Sarebbe il Far West. Solo lo Stato, con un processo, può stabilire una pena. Se punite qualcuno, finite nei guai, e non ve lo meritate. «Posso sparare?» Se siete in pericolo di vita, sì. La legge 36 del 2019, voluta da Salvini, protegge chi è in casa: potete sbagliare a valutare la minaccia. Se aveste una pistola, potreste usarla non solo se vi puntano un’arma, ma anche se, in grave turbamento psicologico, non capite il pericolo. Potreste dire: «Pensavo avesse un’arma, gli ho sparato». La legittima difesa domestica, valida solo in casa, vi dà un margine di errore. Ma serve un pericolo reale. Se il ladro scappa, non potete sparare o accoltellarlo inseguendolo, avrete la colpa. E una mazza da baseball? Può servire, ma è lenta: pesante, va caricata, serve usarla a due mani. Meglio un bastone leggero, più veloce. Se usate una mazza, metteteci un calzino: se l’aggressore la afferra, tirate, lui prende il calzino, voi tenete la mazza. Piccolo trucco. In sintesi: sentite rumori di ladri? Radunate la famiglia in una stanza sicura, chiamate la polizia, seguite l’operatore. Non aprite! State nel castello, fate rumore, accendete luci, urlate: «Vi abbiamo sentito!» e 99 su 100 se ne andranno. Se dovete combattere, fermate l’aggressione senza accanirvi. Se scappa, lasciatelo andare. Non punite, non catturate. Proteggete voi e la vostra famiglia, senza guai.

17 maggio 2025

KRAV MAGA Difesa personale e sicurezza [CAPITOLO 1]

Indice:

KRAV MAGA
Difesa personale e sicurezza
Manuel Spadaccini

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CAPITOLO 1

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1. Come sopravvivere a un pestaggio di gruppo. L’argomento di oggi è come sopravvivere a un pestaggio. Ve lo dico subito: sono cazzi. Perché dico che sono cazzi? Perché di fronte a un pestaggio siamo veramente nei guai. Fateci caso: le aggressioni più drammatiche, quelle che poi sfociano anche nell’uccisione della vittima, nove volte su dieci sono pestaggi. Sono più persone contro una. Si perde il controllo, la situazione degenera, ed è difficile che in un uno contro uno ci scappi il morto. Ma quando sono in tanti contro uno, la situazione è veramente ingestibile. Non pensate che sia una cosa lontana da voi, tipo «a me non succederà mai». Ve lo auguro, però fateci caso: spesso i pestaggi avvengono anche per sciocchezze. Una provocazione, una sigaretta chiesta apposta per provocare la vittima, qualche battibecco, e lì scatta l’aggressione di gruppo. Per cui, è una cosa tutt’altro che rara. Vediamo anzitutto di capire perché i pestaggi spesso degenerano in tragedie, principalmente per due motivi. Il primo motivo è che ci sono tante persone coinvolte, e di conseguenza non c’è più il rapporto uno a uno tra aggressore e vittima. Che cosa significa? Un aggressore che dà tre o quattro colpi può essere consapevole e dire: «Ok, l’ho messo a terra, basta. So che colpi ha ricevuto, so che colpi ho dato», e quindi si fa un’idea di quello che sta succedendo. Quando ritiene che la «lezione» sia sufficiente, è probabile che si fermi. Ma in un pestaggio è una cosa completamente diversa. Ci sono tante persone, ognuno dice la sua, ognuno dà i suoi colpi, quindi è difficile capire quanti colpi ha preso la vittima in totale. Basta che ogni aggressore dia tre o quattro calci: se sono dieci aggressori, la vittima ha preso 30-40 calci. Capite, no? Ogni persona non è consapevole dell’aggressione totale, di quello che faranno gli altri. Ognuno ci mette un po’ del suo, dà i suoi colpi, e alla fine la povera vittima viene massacrata di botte. Il secondo motivo per cui un pestaggio sfocia in tragedia è che spesso le persone si caricano a vicenda. È un po’ quello che succede nel branco con i lupi. Un singolo lupo ha una certa aggressività verso la preda, ma quando si ritrova in branco prende coraggio, diventa ancora più aggressivo, e i vari membri del branco si caricano a vicenda. La stessa cosa succede con gli esseri umani: Un colpo tu, un colpo io, prendo coraggio, tu prendi coraggio, e alla fine siamo come leoni contro la povera vittima. Allo stesso modo, questa carica di gruppo porterà le persone a non voler essere le prime a interrompere il pestaggio, perché l’adrenalina oscura il cervello. Di conseguenza, nessuno dirà: «Fermi, ragazzi, basta così». Questo è il problema: nessuno sa mettere uno stop all’aggressione. Ma quindi, cosa fare per sopravvivere a un pestaggio? Ora sarò molto chiaro con voi. È una questione di equilibrio, e sta a ognuno di voi, in quella precisa situazione, capire se proteggersi o combattere. Ma sappiamo che entrambe le cose non si possono fare contemporaneamente. Vi spiego meglio. Partiamo dal presupposto che durante un pestaggio, nove volte su dieci, si finisce a terra. Questo significa che quando siamo a terra non possiamo più difenderci muovendoci. Siamo vittime di tante persone che ci hanno circondati, ci colpiscono, ed è proprio lì che poi succedono le tragedie. Quando siamo a terra, abbiamo due possibilità: o ci proteggiamo, o tentiamo di trovare una via di fuga. Se ci dobbiamo proteggere, prendiamo sempre la posizione fetale, perché è la posizione più chiusa, più raccolta, quella che espone meno massa corporea e che protegge gli organi vitali. Anche se è istintivo allungare le mani per cercare di parare calci e pugni, non lo facciamo, perché dobbiamo preservare la nostra incolumità. Lo so, non stiamo facendo nulla per fermare i nostri aggressori, ma in questo caso non è possibile fare nulla, perché saranno in tanti, ci hanno circondati, e di conseguenza cercare di prendere tempo e sperare che si calmino è l’unica possibilità che abbiamo. C’è anche l’altra alternativa, quella di provare a trovare una via d’uscita. Trovare una via d’uscita non è semplice, perché dovrò pagare un caro prezzo. Nel momento in cui voglio uscire dal pestaggio, dovrò cercare di bloccare una gamba o due gambe di un aggressore che ho scelto intorno a me, che mi darà la possibilità di trovare un corridoio di uscita. Lo blocco, lo porto a terra e provo a scappare in quella direzione. Però sappiamo che a ogni tentativo consumerò energie e mi esporrò a nuovi colpi. Vuol dire che il tentativo di buttare a terra uno e trovare il corridoio di uscita lo potrò fare poche volte, e lì sta nella fortuna, nel buon senso, nella tecnica, in tutte le carte che possiamo avere per tentare la volta buona di sopravvivere. Non abbiamo la bacchetta magica, quindi più di questo non posso dirvi, se non cercare di bloccarne uno e buttarlo a terra per scappare. Ricordate che se avete preso una valanga di botte, non sarete performante nella vostra fuga. Sarete lenti, magari disorientati, doloranti. Quindi, per fuggire, vi consiglio, per esempio, di entrare nell’androne di un palazzo, chiedere aiuto, oppure andare in un locale pubblico o fermare un passante per chiedere aiuto. Questo potrebbe fermare i vostri aggressori dall’inseguirvi o dal continuare a picchiarvi. Abbiamo capito che in entrambi i casi siamo nei guai e avremo vita breve. Se mi chiudo a riccio, i colpi arriveranno, e prima o poi mi sfiancheranno. Se tento di scappare, ogni tentativo mi costerà caro, prenderò dei colpi che magari mi faranno perdere conoscenza. Per cui, come vi ho detto, sono cazzi.

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2. Cosa osservare per capire se chi abbiamo davanti sa combattere. Stiamo purtroppo litigando con qualcuno: è arrivato vicino e iniziamo a temere che la situazione possa degenerare. Dovremmo magari muovere le mani? Speriamo di no, ma siamo in grado di riconoscere se questa persona può essere impegnativa? Cioè, siamo in grado di capire se sa combattere? Ci sono elementi che indicano la pericolosità del soggetto? Ci sono quattro elementi principali che possono farci capire se una persona sa combattere, per riflettere se affrontare lo scontro oppure no. Il primo elemento da osservare in una persona che si è avvicinata e che dobbiamo capire se sarà un avversario ostico è la postura. Le gambe non saranno mai rigide, inchiodate come due tronchi, ma, se questa persona ha esperienza nel combattimento, saranno flesse sulle ginocchia. Questo è uno dei primi elementi insegnati in qualsiasi sport da combattimento ed è importante perché al fighter consente di essere stabile nel ricevere colpi o spinte, quindi di assorbirli. Inoltre, con le ginocchia flesse, è più mobile nelle schivate o nel portare colpi, e le ginocchia flesse garantiscono grande esplosività nei colpi. Di conseguenza, se vediamo una persona con una posizione a ginocchia flesse, magari con un piede avanti e uno indietro, già in guardia, qualche campanello d’allarme deve scattare. Il secondo elemento da osservare è come tiene le spalle. Una persona che sa combattere difficilmente avrà le spalle basse, ma le solleverà istintivamente per proteggere il mento. Questo aiuta a colpire meglio ed è un indicatore di un’attitudine al difendersi e al combattere. Il terzo elemento da controllare è come gestisce il mento. Sì, perché, come magari capita di vedere, alcune persone vi affrontano faccia a faccia e vi sfidano col mento alto. Ecco, quella persona molto probabilmente non sarà un fighter, perché il fighter, o chi è avvezzo al combattimento, tende a proteggere il mento, sapendo che è un bersaglio molto sensibile. Il mento è un bel pulsantone che, se colpito, può spegnere una persona. Chi sa combattere non ve lo regalerà mai con fare altezzoso, ma lo terrà basso. Pensate che, in alcune discipline da combattimento, gli insegnanti fanno mettere ai principianti una pallina sotto il mento per abituarli a tenerlo chiuso. Anche lo sguardo è importante: se il mento non è alto, non vi guarderà dall’alto in basso per sfidarvi, ma una persona con il mento basso che vi osserva dal basso verso l’alto è più pericolosa, perché è abituata a combattere, osservare e proteggersi. Questo è un segnale di pericolo. Il quarto elemento è la fisicità, in particolare il collo sviluppato. I fighter spesso allenano il collo, perché un collo robusto assorbe meglio i colpi al viso, proteggendo di più rispetto ad un collo debole e riducendo il rischio di knockout. Un collo sviluppato indica che la persona si allena per il combattimento. Anche il naso è un segnale: un naso schiacciato, storto o con il setto nasale allargato suggerisce molte ore di allenamento e colpi ricevuti. Ad esempio, il mio naso sembra a posto, ma di profilo si schiaccia contro la faccia, segno di tanti colpi, anche se è ancora decente da guardare. Se vedete un naso così, probabilmente quella persona pratica il combattimento. Le orecchie a cavolfiore sono un altro indizio: si formano dopo tante ore di allenamento, con pressione costante o colpi che creano ematomi, deformando la cartilagine. Se vedete un orecchio a cavolfiore, quella persona si allena intensamente ed è abituata al corpo a corpo o a ricevere colpi. Attenzione a questi campanelli. Non è detto che chi non ha queste caratteristiche non sappia combattere, ma chi le possiede probabilmente sa muovere le mani. Se pensate di affrontare una persona del genere come bere un bicchier d’acqua, ecco, riconsiderate, perché non sarete il suo primo avversario. Decidete voi cosa fare.

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3. Le quattro regole per gestire tutte le aggressioni. Adesso vi spiego le quattro priorità fondamentali della difesa personale, quattro consigli che, anche se non sapete combattere o vi sentite spaventati durante un’aggressione, vi permetteranno di fare la cosa migliore in quel momento. Seguendo queste indicazioni, non avrete rimpianti, perché avrete agito nel modo più logico e sicuro possibile. Ho dedicato oltre venticinque anni alla sicurezza e alla difesa personale, e in questo tempo ho individuato quattro priorità essenziali. Rispettandole, sarete in grado di affrontare qualsiasi aggressione, indipendentemente dall’esito. Che l’incontro finisca bene, male o in modo incerto, avrete la certezza di aver fatto tutto il possibile. Ecco la prima priorità: non prendere i colpi. Sembra scontato, ma è un concetto fondamentale che molti trascurano. Spesso, durante un litigio o uno scontro in strada, le persone peccano di superbia: pensano solo a colpire, a scegliere il momento giusto per sferrare un pugno o una combinazione, senza proteggersi. Così facendo, si espongono agli attacchi dell’aggressore. Se vi trovate in una situazione di pericolo, con qualcuno che vi minaccia, la prima cosa da fare è evitare i colpi. Come? Ad esempio, mantenendo una distanza di sicurezza o alzando le mani come per gesticolare, creando in realtà una sorta di guardia camuffata. Anche se conoscete mille tecniche spettacolari, un colpo ben assestato in faccia può mettervi KO prima ancora di iniziare. La seconda priorità è legata alla respirazione. Se qualcuno vi sta strangolando, bloccandovi le vie respiratorie, la vostra priorità assoluta deve essere liberarle. Sembra ovvio, ma in una situazione del genere, cercare di colpire l’aggressore potrebbe non funzionare. Se i vostri colpi non vanno a segno, se l’avversario è resistente o se colpite una parte del corpo sbagliata, rischiate di perdere tempo prezioso. In media, sotto l’effetto dell’adrenalina, avete circa sette secondi prima di perdere conoscenza. Per questo, ogni vostra energia deve essere concentrata nel liberare le vie respiratorie, non nel tentare di colpire. Solo dopo aver ripristinato la respirazione potrete pensare a combattere. Prima si libera la gola, poi si agisce. Passiamo alla terza priorità: se l’aggressore è armato, gestite il braccio armato. Un’arma, che sia un coltello, un bastone o una bottiglia rotta, dà all’avversario un vantaggio letale. Concentrarsi su altre parti del suo corpo, ignorando l’arma, è un errore logico. Purtroppo, capita spesso di vedere persone che, di fronte a un coltello, cercano di spingere via l’aggressore colpendolo al viso o al petto, senza considerare che il vero pericolo è il braccio che impugna l’arma. Per questo, è fondamentale allenarsi a sviluppare l’automatismo di concentrarsi sul braccio armato. Anche se l’aggressore può usare altre parti del corpo, il vostro focus deve essere sull’elemento più pericoloso. Non essendo polipi con otto tentacoli, non potete controllare tutto: date priorità a ciò che può farvi più male. Infine, la quarta priorità: se cadete a terra, rialzatevi. In strada, il combattimento a terra deve essere evitato il più possibile. Può capitare di cadere, magari perché si scivola, si viene spinti o si riceve un colpo, ma l’obiettivo deve essere sempre quello di tornare in piedi. Rimanere a terra è estremamente pericoloso: se arrivano altre persone, anche se sapete combattere bene al suolo, rischiate di essere sopraffatti. In palestra, su un tatami, ci sono regole, un arbitro e un avversario che combatte ad armi pari. In strada, invece, siete in balia degli eventi: un amico dell’aggressore potrebbe arrivare e colpirvi con un calcio in faccia, mettendo fine a tutto. Per questo, non dovete mai portare volontariamente un aggressore a terra, perché non sapete se è solo o se altri potrebbero intervenire. Se proprio dovete mettere a terra qualcuno, usate tecniche come quelle dove l’aggressore è a terra ma voi rimanete in piedi o in posizione di controllo, pronti a rialzarvi. Applicare leve articolari o tecniche di sottomissione a terra, come in un incontro di lotta, è rischioso: una volta applicata la tecnica, cosa fate? Quindi evitate il combattimento a terra; se ci finite, fate di tutto per rialzarvi e riprendere mobilità. Queste sono le quattro priorità fondamentali della difesa personale. Rispettandole, guiderete il vostro istinto di sopravvivenza nel modo più efficace possibile. Non avrete rimpianti, perché avrete agito con logica, senza improvvisare decisioni sbagliate. Se poi riuscirete a uscirne illesi, tanto meglio. Ricapitoliamo: prima, non prendete i colpi, proteggetevi come una squadra di calcio che costruisce una solida difesa prima di pensare a fare gol. Seconda, se vi strangolano, liberate le vie respiratorie, perché senza ossigeno non potrete fare nulla. Terza, se c’è un’arma, concentratevi sul braccio armato, perché è quello il vero pericolo. Quarta, evitate di combattere a terra; se ci finite, rialzatevi per riprendere la capacità di muovervi, schivare e difendervi.

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4. Come affrontare un faccia a faccia: dove guardare. Quando un tizio con fare minaccioso vi si avvicina e vi si piazza davanti, potreste sentire l’impulso di non tirarvi indietro, di restare faccia a faccia, senza cedere, per dimostrare che non avete paura, per far vedere che siete più tosti di lui o magari per fare bella figura con una ragazza lì vicino. Ma è davvero utile, o è una strategia da perdenti? Adesso vi spiego perché questo atteggiamento è spesso un errore. Quasi tutte le aggressioni e le scazzottate iniziano con una fase di faccia a faccia, con due persone vicinissime che si sfidano guardandosi negli occhi, finché non scoppia il patatrac. Questa vicinanza è quasi una certezza prima di uno scontro fisico. Istintivamente, è un modo per cogliervi di sorpresa. Quando qualcuno è così vicino, un pugno può arrivare così velocemente — in pochi millisecondi — che il vostro tempo di reazione, che richiede circa 300-350 millisecondi per elaborare e rispondere, è troppo lento per parare o schivare. A 50 centimetri, un colpo è quasi impossibile da contrastare in tempo, rendendo questa distanza ravvicinata perfetta per un attacco a sorpresa, come il classico pugno da vigliacchi che si vede spesso nelle risse di strada. Mantenere una distanza di sicurezza sarebbe l’ideale, ma non è sempre possibile. Potreste essere con le spalle al muro, magari contro la vostra macchina dopo una lite in strada, o con il bancone di un bar dietro di voi, in situazioni quotidiane — non un ring o una gabbia — dove non potete creare lo spazio che vorreste. Se riuscite a mantenere circa un metro di distanza, è già qualcosa di utile. Ma dove guardare in quel momento di tensione faccia a faccia? Fissate l’aggressore negli occhi per mostrarvi coraggiosi? Guardate in giro con noncuranza? Guardate per terra sperando di calmare la situazione? Fissarlo negli occhi per dimostrare di essere strafighi è un grande errore, e guardare in giro come se niente fosse è altrettanto sbagliato. Guardare negli occhi può essere utile, ma solo per una frazione di secondo. I vostri occhi devono funzionare come telecamere di sorveglianza, scansionando l’intera scena. Uno sguardo rapido agli occhi dell’altro mostra che non siete intimoriti, ma dovete anche osservare tutto il suo corpo. Sta mettendo le mani in tasca, magari per prendere un coltello? Sta tirando indietro una spalla, preparando un pugno? Ho notato un comportamento curioso: molti aggressori, poco prima di colpire a sorpresa, si aggiustano i pantaloni o spostano il peso all’indietro. Potrebbe essere un modo per farvi abbassare la guardia, facendovi credere che si stiano rilassando o che stiano per andarsene. Per esempio, potrebbero fingere di parlare con un amico o di voltarsi per allontanarsi, solo per colpirvi quando meno ve l’aspettate. Questi movimenti sottili — aggiustarsi i pantaloni, spostare un piede, o distogliere lo sguardo — sono trappole per farvi pensare che il pericolo sia passato, preparandovi a diventare un bersaglio perfetto. Poiché la vostra visione periferica non può cogliere tutto quando le mani dell’aggressore sono basse e vicine, siete vulnerabili a colpi che non vedete arrivare. I fighter professionisti mantengono la distanza per osservare le spalle e i movimenti dell’avversario, evitando il faccia a faccia perché sanno che un colpo a sorpresa è più probabile in quella posizione. Quindi, non cadete in questo errore. Inoltre, osservare non solo l’aggressore ma anche ciò che vi circonda è fondamentale. Vi permette di capire se ci sono suoi amici pronti a intervenire, rendendo lo scontro uno contro tanti. Potete notare se qualcuno sta prendendo qualcosa dalle tasche, come un’arma, o individuare oggetti utili per difendervi, come una sedia in un locale per tenere a distanza l'aggressore, o una bottiglia che potrebbe essere usata contro di voi. Guardare intorno vi aiuta anche a trovare vie di fuga, come un’uscita di emergenza o una scala in una stazione della metropolitana, per capire dove scappare in caso di necessità. Infine, il suo sguardo può rivelarvi molto. Non si tratta di fare una scansione psicologica in 30 secondi per capire se sta bluffando o vuole davvero colpirvi — non siamo così bravi da decifrare una persona in un istante. Tuttavia, potete riconoscere alcuni segnali. Se vi fissa negli occhi per sfidarvi, fate molta attenzione al momento in cui distoglie lo sguardo. Potrebbe essere un trucco per farvi rilassare, per farvi abbassare la guardia mentale, rendendovi vulnerabili a un colpo. Non pensate che, se guarda altrove, la minaccia sia finita. Anzi, è proprio in quel momento che dovete tenere la guardia ancora più alta. Potete rilassarvi solo quando l’aggressore se n’è andato o quando siete a una distanza che rende impossibile un colpo a sorpresa.

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5. Come vincere contro un avversario più grosso: errori da evitare per i più piccoli. In un combattimento di strada non esistono categorie di peso. Spesso ci troviamo a doverci difendere da persone più grosse, più forti e più pesanti di noi. Per sopravvivere a uno scontro del genere, ci sono tre errori fondamentali che dobbiamo assolutamente evitare. Il primo, se siamo una persona più minuta, è colpire a caso. Quando affrontiamo qualcuno molto più grosso e forte di noi, non possiamo permetterci di sprecare colpi. Dare pugni al petto, calci ai quadricipiti o colpire dove capita e a casaccio non serve a nulla. Potremmo non avere una seconda occasione per andare a segno. È importantissimo per le persone minute essere chirurgici nella precisione. Dobbiamo colpire punti strategici, come il mento per cercare un KO, il fegato che, se colpito bene, può lasciare l’avversario piegato in due, o, in situazioni estreme, zone sensibili come i genitali o le orecchie. In casi disperati, quando è in gioco la nostra vita, possiamo persino mirare agli occhi. Ogni colpo deve essere mirato e preciso, perché potrebbe essere l’unico che riusciamo a portare. Il secondo errore che dobbiamo evitare è restare fermi durante lo scontro. Se offriamo un bersaglio fisso, una persona con una stazza fisica maggiore ha molte più carte da giocare per sopraffarci. Potrebbe travolgerci, portarci a terra e sfruttare la sua forza fisica per immobilizzarci o schiacciarci. Per questo, dobbiamo muoverci continuamente: colpiamo e spostiamoci, colpiamo e spostiamoci. Non dobbiamo mai dare un punto di riferimento fisso al nostro aggressore. Essere più piccoli può persino diventare un vantaggio: spesso una corporatura minuta ci rende più agili e veloci rispetto a una persona più grossa. Dobbiamo sfruttare questa caratteristica per confondere l’avversario e rendere difficile per lui colpirci o afferrarci. Il terzo errore è cercare il contatto ravvicinato, come il clinch o la lotta a terra. A meno che non siamo super allenati in queste tecniche, il corpo a corpo è un autogol per un piccolino. Partiamo dal presupposto che entrambi gli avversari abbiano lo stesso livello di preparazione tecnica, magari prossima allo zero: due persone comuni che si scontrano in strada, che non hanno mai preso un pugno né dato un calcio. Una persona più grossa e forte avrà sempre un vantaggio nel contatto fisico: può spingerci contro un muro, immobilizzarci o addirittura schiacciarci con il suo peso. Per questo, dobbiamo mantenere la distanza. Dobbiamo colpire e ritirarci, restando fuori dal raggio d’azione dell’aggressore. Dobbiamo evitare a tutti i costi tecniche che implichino un contatto prolungato, come cercare di strangolare o portare a terra una persona più grossa: il rischio è troppo alto. Oltre a evitare questi tre errori, c’è un quarto consiglio che può fare la differenza. Se siamo più piccoli e affrontiamo un aggressore più grosso, che probabilmente ha già un vantaggio fisico su di noi, dobbiamo fermarlo agendo a distanza. Come? Con uno spray al peperoncino a norma di legge. Un buon dispositivo, con una gittata di circa tre metri, ci permette di neutralizzare l’aggressore senza avvicinarci. Quando colpisce, lo spray causa un effetto temporaneo: l’avversario non vede più nulla, inizia a tossire e si concentra su se stesso, dandoci il tempo di metterci in sicurezza insieme ai nostri cari. L’effetto dura circa 30 minuti e non lascia lesioni permanenti, quindi non ci sono problemi legali legati a prognosi mediche o ferite gravi. È una soluzione intelligente che ci tutela anche dal punto di vista legale. Anche se siamo bravi a combattere, che siamo piccoli o grandi, uno scontro fisico è sempre una situazione in cui tutti perdono. Potremmo uscirne feriti gravemente, oppure potremmo vincere, ma rischiare di pagare profumatamente le conseguenze legali per aver fatto male all’aggressore. Per questo, i consigli che vi ho dato sono utili per sopravvivere a un’aggressione quando non c’è altra scelta. Ma, se possibile, la strategia migliore è prevenire. Portare con noi uno spray al peperoncino, magari con una torcia integrata per illuminare il bersaglio al buio, è un modo intelligente per evitare guai. La difesa personale non è solo questione di muovere le mani, ma di pensare in anticipo e agire con astuzia.

15 maggio 2025

CUORE di Edmondo de Amicis [OTTOBRE]

Indice:

CUORE
Edmondo de Amicis

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OTTOBRE

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Il primo giorno di scuola.

17, lunedì.

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla sezione Baretti a farmi iscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna, e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente, che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tener sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro di seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: — Dunque, Enrico, siamo separati per sempre? — Io lo sapevo bene; eppure mi fecero pena quelle parole. Entrammo a stento. Signore, signori, donne del popolo, operai, ufficiali, nonne, serve, tutti coi ragazzi per una mano e i libretti di promozione nell’altra, empivano la stanza d’entrata e le scale, facendo un ronzìo che pareva d’entrare in un teatro. Lo rividi con piacere quel grande camerone a terreno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. C’era folla, le maestre andavano e venivano. La mia maestra della prima superiore mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: — Enrico, tu vai al piano di sopra, quest’anno: non ti vedrò nemmen più passare! — E mi guardò con tristezza. Il Direttore aveva intorno delle donne tutte affannate perché non c’era più posto per i loro figlioli, e mi parve ch’egli avesse la barba un poco più bianca che l’anno passato. Trovai dei ragazzi cresciuti, ingrassati. Al pian terreno dove s’eran già fatte le ripartizioni, c’erano dei bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s’impuntavano come somarelli; bisognava che li tirassero dentro a forza; e alcuni scappavano dai banchi; altri al veder andar via i parenti, si mettevano a piangere, e questi dovevano tornare indietro a consolarli o a ripigliarseli, e le maestre si disperavano. Il mio piccolo fratello fu messo nella classe della maestra Delcati; io dal maestro Perboni, su al primo piano. Alle dieci eravamo tutti in classe: cinquantaquattro: appena quindici o sedici dei miei compagni della seconda, fra i quali Derossi, quello che ha sempre il primo premio. Mi parve così piccola e triste la scuola, pensando ai boschi, alle montagne dove passai l’estate! Anche ripensavo al mio maestro di seconda, così buono, che rideva sempre con noi, e piccolo, che pareva un nostro compagno, e mi rincresceva di non vederlo più là, coi suoi capelli rossi arruffati. Il nostro maestro è alto, senza barba, coi capelli grigi e lunghi, e ha una ruga diritta sulla fronte; ha la voce grossa, e ci guarda tutti fisso, l’uno dopo l’altro, come per leggerci dentro; e non ride mai. Io dicevo tra me: — Ecco il primo giorno. Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche! — Avevo proprio bisogno di trovar mia madre all’uscita, e corsi a baciarle la mano. Essa mi disse: — Coraggio, Enrico! Studieremo, insieme. — E tornai a casa contento. Ma non ho più il mio maestro, con quel sorriso buono e allegro, e non mi par più bella come prima la scuola.

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Il nostro maestro.

18, martedì.

Anche il mio nuovo maestro mi piace, dopo questa mattina. Durante l’entrata, mentre egli era già seduto al suo posto, s’affacciava di tanto in tanto alla porta della classe qualcuno dei suoi scolari dell’anno scorso, per salutarlo; s’affacciavano, passando, e lo salutavano: — Buon giorno, signor maestro. — Buon giorno, signor Perboni; — alcuni entravano, gli toccavano la mano e scappavano. Si vedeva che gli volevan bene e che avrebbero voluto tornare con lui. Egli rispondeva: — Buon giorno, — stringeva le mani che gli porgevano; ma non guardava nessuno; ad ogni saluto rimaneva serio, con la sua ruga diritta sulla fronte, voltato verso la finestra, e guardava il tetto della casa di faccia; e invece di rallegrarsi di quei saluti, pareva che ne soffrisse. Poi guardava noi, l’uno dopo l’altro, attento. Dettando, discese a passeggiare in mezzo ai banchi, e visto un ragazzo che aveva il viso tutto rosso di bollicine, smise di dettare, gli prese il viso fra le mani e lo guardò; poi gli domandò che cos’aveva, e gli passò una mano sulla fronte per sentir s’era calda. In quel mentre, un ragazzo dietro di lui si rizzò sul banco, e si mise a fare la marionetta. Egli si voltò tutt’a un tratto; il ragazzo risedette d’un colpo, e restò lì, col capo basso, ad aspettare il castigo. Il maestro gli pose una mano sul capo e gli disse: — Non lo far più. — Nient’altro. Tornò al tavolino e finì di dettare. Finito di dettare, ci guardò un momento in silenzio; poi disse adagio adagio, con la sua voce grossa, ma buona: — Sentite. Abbiamo un anno da passare insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate buoni. Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. Avevo ancora mia madre l’anno scorso: mi è morta. Son rimasto solo. Non ho più che voi al mondo, non ho più altro affetto, altro pensiero che voi. Voi dovete essere i miei figliuoli. Io vi voglio bene, bisogna che vogliate bene a me. Non voglio aver da punire nessuno. Mostratemi che siete ragazzi di cuore; la nostra scuola sarà una famiglia, e voi sarete la mia consolazione e la mia alterezza. Non vi domando una promessa a parole; son certo che, nel vostro cuore, m’avete già detto di sì. E vi ringrazio. — In quel punto entrò il bidello a dare il finis. Uscimmo tutti dai banchi zitti zitti. Il ragazzo che s’era rizzato sul banco s’accostò al maestro, e gli disse con voce tremante: — Signor maestro, mi perdoni. — Il maestro lo baciò in fronte e gli disse: — Va’, figliuol mio.

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Una disgrazia.

21, venerdì.

L’anno è cominciato con una disgrazia. Andando a scuola, questa mattina, io ripetevo a mio padre quelle parole del maestro, quando vedemmo la strada piena di gente che si serrava davanti alla porta della Sezione. Mio padre disse subito: — Una disgrazia! L’anno comincia male! — Entrammo a gran fatica. Il grande camerone era affollato di parenti e di ragazzi, che i maestri non riuscivano a tirar nelle classi, e tutti eran rivolti verso la stanza del Direttore, e s’udiva dire: — Povero ragazzo! Povero Robetti! — Al disopra delle teste, in fondo alla stanza piena di gente, si vedeva l’elmetto d’una guardia civica e la testa calva del Direttore: poi entrò un signore col cappello alto, e tutti dissero: — È il medico. — Mio padre domandò a un maestro: — Cos’è stato? — Gli è passata la ruota sul piede, — rispose. — Gli ha rotto il piede, — disse un altro. — Era un ragazzo della seconda, che venendo a scuola per via Dora Grossa, e vedendo un bimbo della prima inferiore, sfuggito alla madre, cadere in mezzo alla strada, a pochi passi da un omnibus che gli veniva addosso, era accorso arditamente, l’aveva afferrato e messo in salvo; ma non essendo stato lesto a ritirare il piede, la ruota dell’omnibus gli era passata su. È figliuolo d’un capitano d’artiglieria. Mentre ci raccontavano questo, una signora entrò nel camerone come una pazza, rompendo la folla: era la madre di Robetti, che avevan mandato a chiamare; un’altra signora le corse incontro, e le gettò le braccia al collo singhiozzando: era la madre del bambino salvato. Tutt’e due si slanciarono nella stanza, e s’udì un grido disperato: — Oh Giulio mio! Bambino mio! — In quel momento si fermò una carrozza davanti alla porta, e poco dopo comparve il Direttore col ragazzo in braccio, che appoggiava il capo sulla sua spalla, col viso bianco e gli occhi chiusi. Tutti stettero zitti: si sentivano i singhiozzi della madre. Il Direttore si arrestò un momento, pallido, e sollevò un poco il ragazzo con tutt’e due le braccia per mostrarlo alla gente. E allora maestri e maestre, parenti, ragazzi, mormorarono tutti insieme: — Bravo, Robetti! — Bravo, povero bambino! — e gli mandavano dei baci; le maestre e i ragazzi che gli erano intorno, gli baciarono le mani e le braccia. Egli aperse gli occhi, e disse: — La mia cartella! — La madre del piccino salvato gliela mostrò piangendo e gli disse: — Te la porto io, caro angiolo, te la porto io. — E intanto sorreggeva la madre del ferito, che si copriva il viso con le mani. Uscirono, adagiarono il ragazzo nella carrozza, la carrozza partì. E allora rientrammo tutti nella scuola, in silenzio.

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Il ragazzo calabrese.

22, sabato.

Ieri sera, mentre il maestro ci dava notizie del povero Robetti, che dovrà camminare un pezzo con le stampelle, entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato nell’orecchio del maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: — Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli. — Detto questo s’alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio di Calabria. Poi chiamò forte: — Ernesto Derossi! — quello che ha sempre il primo premio. Derossi s’alzò. — Vieni qua, — disse il maestro. Derossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese. — Come primo della scuola, — gli disse il maestro, — da’ l’abbraccio del benvenuto in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio del figliuolo del Piemonte al figliuolo della Calabria. — Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: — Benvenuto! — e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani. — Silenzio! — gridò il maestro, — non si battono le mani in scuola! — Ma si vedeva che era contento. Anche il calabrese era contento. Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: — Ricordatevi bene quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni, e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore. — Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa, e un altro ragazzo, dall’ultimo banco, gli mandò un francobollo di Svezia.

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I miei compagni.

25, martedì.

Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese, è quello che mi piace più di tutti, si chiama Garrone, è il più grande della classe, ha quattordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; è buono, si vede quando sorride; ma pare che pensi sempre, come un uomo. Ora ne conosco già molti dei miei compagni. Un altro mi piace pure, che ha nome Coretti, e porta una maglia color cioccolata e un berretto di pelo di gatto; sempre allegro, figliuolo d’un rivenditore di legna, che è stato soldato nella guerra del ’66, nel quadrato del principe Umberto, e dicono che ha tre medaglie. C’è il piccolo Nelli, un povero gobbino, gracile e col viso smunto. C’è uno molto ben vestito, che sempre si leva i peluzzi dai panni, e si chiama Votini. Nel banco davanti al mio c’è un ragazzo che chiamano il «muratorino», perché suo padre è muratore; una faccia tonda come una mela, con un naso a pallottola; egli ha una abilità particolare, sa fare il muso di lepre, e tutti gli fanno fare il muso di lepre, e ridono; porta un piccolo cappello a cencio, che tiene appallottolato in tasca come un fazzoletto. Accanto al muratorino c’è Garoffi, un coso lungo e magro, col naso a becco di civetta e gli occhi molto piccoli, che traffica sempre con pennini, immagini e scatole di fiammiferi, e si scrive la lezione sulle unghie per leggerla di nascosto. C’è poi un signorino, Carlo Nobis, che sembra molto superbo, ed è in mezzo a due ragazzi che mi son simpatici: il figliuolo d’un fabbro ferraio, insaccato in una giacchetta che gli arriva al ginocchio, pallidino che par malato e ha sempre l’aria spaventata e non ride mai; e uno coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e lo porta appeso al collo: suo padre è andato in America e sua madre va in giro a vendere gli erbaggi. È anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, — Stardi, — piccolo e tozzo, senza collo, un grugnone che non parla con nessuno, e pare che capisca poco, ma sta attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti: e se lo interrogano quando il maestro parla, la prima e la seconda volta non risponde, la terza volta tira un calcio. E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione. Ci sono anche due fratelli, vestiti uguali, che si somigliano a pennello, e portano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano. Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo di sicuro anche quest’anno, è Derossi; e il maestro, che l’ha già capito, lo interroga sempre. Io però voglio bene a Precossi, il figliuolo del fabbro ferraio, quello della giacchetta lunga, che pare un malatino; dicono che suo padre lo batte; è molto timido, e ogni volta che interroga o tocca qualcuno dice: — Scusami, — e guarda con gli occhi buoni e tristi. Ma Garrone è il più grande e il più buono.

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Un tratto generoso.

26, mercoledì.

E si diede appunto a conoscere questa mattina, Garrone. Quando entrai nella scuola, — un poco tardi, che m’avea fermato la maestra di prima superiore per domandarmi a che ora poteva venir a casa a trovarci, — il maestro non c’era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il povero Crossi, quello dai capelli rossi, che ha un braccio morto, e sua madre vende erbaggi. Lo stuzzicavano colle righe, gli buttavano in faccia delle scorze di castagne, e gli davan dello storpio e del mostro, contraffacendolo, col suo braccio al collo. Ed egli tutto solo in fondo al banco, smorto, stava a sentire, guardando ora l’uno ora l’altro con gli occhi supplichevoli, perché lo lasciassero stare. Ma gli altri sempre più lo beffavano, ed egli cominciò a tremare e a farsi rosso dalla rabbia. A un tratto Franti, quella brutta faccia, salì sur un banco, e facendo mostra di portar due cesti sulle braccia, scimmiottò la mamma di Crossi, quando veniva ad aspettare il figliuolo alla porta; perché ora è malata. Molti si misero a ridere forte. Allora Crossi perse la testa, e afferrato un calamaio glielo scaraventò al capo di tutta forza; ma Franti fece civetta, e il calamaio andò a colpire nel petto il maestro che entrava. Tutti scapparono al posto, e fecero silenzio, impauriti. Il maestro, pallido, salì al tavolino, e con voce alterata domandò: — Chi è stato? — Nessuno rispose. Il maestro gridò un’altra volta, alzando ancora la voce: — Chi è? — Allora Garrone, mosso a pietà del povero Crossi, si alzò di scatto, e disse risolutamente: — Sono io. — Il maestro lo guardò, guardò gli scolari stupiti; poi disse con voce tranquilla: — Non sei tu. — E dopo un momento: — Il colpevole non sarà punito. S’alzi! — Crossi s’alzò, e disse piangendo: — Mi picchiavano e m’insultavano, io ho perso la testa, ho tirato... — Siedi, — disse il maestro. — S’alzino quelli che lo han provocato. — Quattro s’alzarono, col capo chino. — Voi, — disse il maestro, — avete insultato un compagno che non vi provocava, schernito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere. Avete commesso una delle azioni più basse, più vergognose di cui si possa macchiare una creatura umana. Vigliacchi! — Detto questo, scese tra i banchi, mise una mano sotto il mento di Garrone, che stava col viso basso, e fattogli alzare il viso, lo fissò negli occhi e gli disse: — Tu sei un’anima nobile. — Garrone, colto il momento, mormorò non so che parole nell’orecchio al maestro; e questi, voltatosi verso i quattro colpevoli, disse bruscamente: — Vi perdono.

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La mia maestra di prima superiore.

27, giovedì.

La mia maestra ha mantenuto la promessa, è venuta oggi a casa, nel momento che stavo per uscire con mia madre, per portar biancheria a una donna povera, raccomandata dalla Gazzetta. Era un anno che non l’avevamo più vista in casa nostra. Tutti le abbiamo fatto festa. È sempre quella, piccola, col suo velo verde intorno al cappello, vestita alla buona e pettinata male, ché non ha tempo di rilisciarsi; ma un poco più scolorita che l’anno passato, con qualche capello bianco, e tosse sempre. Mia madre gliel’ha detto: — E la salute, cara maestra? Lei non si riguarda abbastanza! — Eh, non importa, — ha risposto, col suo sorriso allegro, e insieme malinconico. — Lei parla troppo forte, — ha soggiunto mia madre, — si affanna troppo coi suoi ragazzi. — È vero; si sente sempre la sua voce; mi ricordo di quando andavo a scuola da lei; parla sempre, parla perché i ragazzi non si distraggano, e non sta un momento seduta. N’ero ben sicuro che sarebbe venuta, perché non si scorda mai dei suoi scolari; ne rammenta i nomi per anni; i giorni d’esame mensile, corre a domandar al Direttore che punti hanno avuto; li aspetta all’uscita, e si fa mostrar le composizioni per vedere se hanno fatto progressi; e molti vengono ancora a trovarla dal Ginnasio, che han già i calzoni lunghi e l’orologio. Quest’oggi tornava tutta affannata dalla Pinacoteca, dove avea condotto i suoi ragazzi, come gli anni passati, ché ogni giovedì li conduceva tutti a un museo, e spiegava ogni cosa. Povera maestra, è ancora dimagrata. Ma è sempre viva, s’accalora quando parla della sua scuola. Ha voluto rivedere il letto dove mi vide molto malato due anni fa, e che ora è di mio fratello; lo ha guardato un pezzo e non poteva parlare. Ha dovuto scappar presto per andar a visitare un ragazzo della sua classe, figliuolo d’un sellaio, malato di rosolìa; e aveva per di più un pacco di pagine da correggere, tutta la serata da lavorare, e doveva ancor dare una lezione privata d’aritmetica a una bottegaia, prima di notte. — Ebbene, Enrico, — m’ha detto andandosene, — vuoi ancora bene alla tua maestra, ora che risolvi i problemi difficili e fai le composizioni lunghe? — M’ha baciato, m’ha ancora detto d’in fondo alla scala: — Non mi scordare, sai, Enrico! — O mia buona maestra, mai, mai non ti scorderò. Anche quando sarò grande, mi ricorderò ancora di te e andrò a trovarti fra i tuoi ragazzi; e ogni volta che passerò vicino a una scuola e sentirò la voce d’una maestra, mi parrà di sentir la tua voce, e ripenserò ai due anni che passai nella scuola tua, dove imparai tante cose, dove ti vidi tante volte malata e stanca, ma sempre premurosa, sempre indulgente, disperata quando uno pigliava un mal vezzo delle dita a scrivere, tremante quando gli ispettori c’interrogavano, felice quando facevamo buona figura, buona sempre e amorosa come una madre. Mai, mai non mi scorderò di te, maestra mia.

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In una soffitta.

28, venerdì.

Ieri sera con mia madre e con mia sorella Silvia andammo a portar la biancheria alla donna povera raccomandata dal giornale; io portai il pacco, Silvia aveva il giornale, con le iniziali del nome e dell’indirizzo. Salimmo fin sotto il tetto d’una casa alta, in un corridoio lungo, dov’erano molti usci. Mia madre picchiò all’ultimo: ci aperse una donna ancora giovane, bionda e macilenta, che subito mi parve d’aver già visto altre volte, con quel medesimo fazzoletto turchino che aveva in capo. — Siete voi quella del giornale, così e così? — domandò mia madre. — Sì, signora, son io. — Ebbene, vi abbiamo portato un poco di biancheria. — E quella a ringraziare e a benedire, che non finiva più. Io intanto vidi in un angolo della stanza nuda e scura un ragazzo inginocchiato davanti a una seggiola, con la schiena voltata verso di noi, che parea che scrivesse: e proprio scriveva, con la carta sopra la seggiola, e aveva il calamaio sul pavimento. Come faceva a scrivere così al buio? Mentre dicevo questo tra me, ecco a un tratto che riconosco i capelli rossi e la giacchetta di frustagno di Crossi, il figliuolo dell’erbivendola, quello dal braccio morto. Io lo dissi piano a mia madre, mentre la donna riponeva la roba. — Zitto! — rispose mia madre. — Può esser che si vergogni a vederti, che fai la carità alla sua mamma; non lo chiamare. — Ma in quel momento Crossi si voltò, io rimasi imbarazzato, egli sorrise, e allora mia madre mi diede una spinta perché corressi ad abbracciarlo. Io l’abbracciai, egli si alzò e mi prese per mano. — Eccomi qui, — diceva in quel mentre sua madre alla mia, sola con questo ragazzo, il marito in America da sei anni, ed io, per giunta malata, che non posso più andare in giro con la verdura a guadagnare quei pochi soldi. Non ci è rimasto nemmeno un tavolino per il mio povero Luigino, da farci il lavoro. Quando ci avevo il banco giù nel portone, almeno poteva scrivere sul banco: ora me l’han levato. Nemmeno un poco di lume da studiare senza rovinarsi gli occhi. È grazia se lo posso mandare a scuola, ché il municipio gli dà i libri e i quaderni. Povero Luigino, che studierebbe tanto volentieri! Povera donna che sono! — Mia madre le diede tutto quello che aveva nella borsa, baciò il ragazzo, e quasi piangeva quando uscimmo. E aveva ben ragione di dirmi: — Guarda quel povero ragazzo, com’è costretto a lavorare, tu che hai tutti i comodi, e pure ti par duro lo studio! Ah! Enrico mio, c’è più merito nel suo lavoro d’un giorno che nel tuo lavoro d’un anno. A quelli lì dovrebbero dare i premi!

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La scuola.

28, venerdì.

Sì, caro Enrico, lo studio ti è duro, come ti dice tua madre: non ti vedo ancora andare a scuola con quell’animo risoluto e con quel viso ridente, ch’io vorrei. Tu fai ancora il restìo. Ma senti: pensa un po’ che misera, spregevole cosa sarebbe la tua giornata se tu non andassi a scuola! A mani giunte, in capo a una settimana, domanderesti di ritornarci, roso dalla noia e dalla vergogna, stomacato dei tuoi trastulli e della tua esistenza. Tutti, tutti studiano ora, Enrico mio. Pensa agli operai che vanno a scuola la sera dopo aver faticato tutta la giornata; alle donne, alle ragazze del popolo che vanno a scuola la domenica, dopo aver lavorato tutta la settimana; ai soldati che metton mano ai libri e ai quaderni quando tornano spossati dagli esercizi; pensa ai ragazzi muti e ai ciechi, che pure studiano; e fino ai prigionieri, che anch’essi imparano a leggere e a scrivere. Pensa, la mattina, quando esci, che in quello stesso momento, nella tua stessa città, altri trentamila ragazzi vanno come te a chiudersi per tre ore in una stanza a studiare. Ma che! Pensa a quegli innumerevoli ragazzi che presso a poco a quell’ora vanno a scuola in tutti i paesi; vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno, per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, in barca nei paesi intersecati da canali, a cavallo per le grandi pianure, in slitta sopra le nevi, per valli e per colline, a traverso a boschi e a torrenti, su per sentieri solitari delle montagne, soli, a coppie, a gruppi, a lunghe file, tutti coi libri sotto il braccio, vestiti in mille modi, parlanti in mille lingue, dalle ultime scuole della Russia quasi perdute fra i ghiacci alle ultime scuole dell’Arabia ombreggiate dalle palme, milioni e milioni, tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose; immagina questo vastissimo formicolìo di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai parte, e pensa: — Se questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie; questo movimento è il progresso, la speranza, la gloria del mondo. — Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri son le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio.

TUO PADRE

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Il piccolo patriotta padovano.

Racconto mensile

29, sabato.

Non sarò un soldato codardo, no; ma ci andrei molto più volentieri a scuola, se il maestro ci facesse ogni giorno un racconto come quello di questa mattina. Ogni mese, disse, ce ne farà uno, ce lo darà scritto, e sarà sempre un racconto d’un atto bello e vero, compiuto da un ragazzo. Il piccolo patriotta padovano s’intitola questo. Ecco il fatto. Un piroscafo francese partì da Barcellona, città della Spagna, per Genova, e c’erano a bordo francesi, italiani, spagnuoli, svizzeri. C’era fra gli altri, un ragazzo di undici anni, mal vestito, solo, che se ne stava sempre in disparte, come un animale selvatico, guardando tutti con l’occhio torvo. Ed aveva ben ragione di guardare tutti con l’occhio torvo. Due anni prima, suo padre e sua madre, contadini dei dintorni di Padova, l’avevano venduto al capo d’una compagnia di saltimbanchi; il quale, dopo avergli insegnato a fare i giochi a furia di pugni, di calci e di digiuni, se l’era portato a traverso alla Francia e alla Spagna, picchiandolo sempre e non sfamandolo mai. Arrivato a Barcellona, non potendo più reggere alle percosse e alla fame, ridotto in uno stato da far pietà, era fuggito dal suo aguzzino, e corso a chieder protezione al Console d’Italia, il quale, impietosito, l’aveva imbarcato su quel piroscafo, dandogli una lettera per il questore di Genova, che doveva rimandarlo ai suoi parenti; ai parenti che l’avevan venduto come una bestia. Il povero ragazzo era lacero e malaticcio. Gli avevan dato una cabina nella seconda classe. Tutti lo guardavano; qualcuno lo interrogava; ma egli non rispondeva, e pareva odiasse e disprezzasse tutti, tanto l’avevano inasprito e intristito le privazioni e le busse. Tre viaggiatori nondimeno, a forza di insistere colle domande, riuscirono a fargli snodare la lingua, e in poche parole rozze, miste di veneto, di spagnuolo e di francese, egli raccontò la sua storia. Non erano italiani quei viaggiatori; ma capirono, e un poco per compassione, un poco perché eccitati dal vino, gli diedero dei soldi, celiando e stuzzicandolo perché raccontasse altre cose; ed essendo entrate nella sala, in quel momento, alcune signore, tutti e tre, per farsi vedere, gli diedero ancora del denaro, gridando: — Piglia questo! — Piglia quest’altro! — e facendo risonar le monete sulla tavola. Il ragazzo intascò ogni cosa, ringraziando a mezza voce, col suo fare burbero, ma con uno sguardo per la prima volta sorridente e affettuoso. Poi s’arrampicò nella sua cuccetta, tirò la tenda, e stette queto, pensando ai fatti suoi. Con quei denari poteva assaggiare qualche buon boccone a bordo, dopo due anni che stentava il pane; poteva comprarsi una giacchetta, appena sbarcato a Genova, dopo due anni che andava vestito di cenci; e poteva anche, portandosi a casa, farsi accogliere da suo padre e da sua madre un poco più umanamente che non l’avrebbero accolto se fosse arrivato con le tasche vuote. Erano una piccola fortuna per lui quei denari. E a questo egli pensava, racconsolato dietro la tenda della sua cabina, mentre i tre viaggiatori discorrevano, seduti alla tavola da pranzo, in mezzo alla sala di seconda classe. Bevevano e discorrevano dei loro viaggi e dei paesi che avevano veduti e, di discorso in discorso, vennero a ragionare dell’Italia. Cominciò uno a lagnarsi degli alberghi, un altro delle strade ferrate, e poi tutti insieme infervorandosi, presero a dir male d’ogni cosa. Uno avrebbe preferito di viaggiare in Lapponia; un altro diceva di non aver trovato in Italia che truffatori e briganti; il terzo, che gli impiegati italiani non sanno leggere. — Un popolo ignorante, — ripetè il primo. — Sudicio, — aggiunse il secondo. — La... — esclamò il terzo; e voleva dir ladro, ma non potè finir la parola: una tempesta di soldi e di mezze lire si rovesciò sulle loro teste e sulle loro spalle, e saltellò sul tavolo e sull’impiantito con un fracasso d’inferno. Tutti e tre s’alzarono furiosi, guardando all’insù, e ricevettero ancora una manata di soldi sulla faccia. — Ripigliatevi i vostri soldi, — disse con disprezzo il ragazzo, affacciato fuori della tenda della cuccetta; — io non accetto l’elemosina da chi insulta il mio paese.